Io ti troverò

di Shane Stevens

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  1. PollyM
     
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    Iotitrover


    Titolo: Io vi troverò
    Autore: Shane Stevens
    Data di pubblicazione: 2010
    Titolo originale: By reason on insanity
    Prezzo: € 19,50
    Editore: Fazi
    Pagine: 798

    A dieci anni Thomas Bishop viene internato in una clinica psichiatrica dopo aver ucciso la madre che lo seviziava da sempre. Quindici anni dopo, evade dall'istituto e dà inizio a una fuga sanguinaria sul cui cammino sono ancora le donne a cadere. Un omicidio, due, poi saranno decine; Bishop tortura e uccide spostandosi da Las Vegas a Chicago, a New York. Un personaggio infero ma straordinariamente umano, del quale Shane Stevens è cronista implacabile raccontandone nel dettaglio l'infanzia e gli anni di reclusione, le quotidiane strategie di sopravvivenza e la ferocia omicida. Ne emerge un indimenticabile ritratto della follia, di quel concatenarsi di storie, incontri o mancati incontri che conducono un uomo a cedere alla violenza, all'orrore, alla distruzione dell'altro e di sé. E accanto a questa ombra che ferisce a morte le grandi metropoli del continente, emerge il volto oscuro dell'America degli anni Settanta, restituito attraverso il racconto di una caccia all'uomo che coinvolgerà tutti, poliziotti e giudici, politici e giornalisti, beffati dall'astuzia dell'assassino e incatenati, loro malgrado, alla sua testarda, deviata umanità.

    Questo romanzo è particolare, per diversi motivi.

    Primo, arriva in Italia 20 anni dopo la sua pubblicazione in inglese, con il titolo By reason on insanity. E questo, a detta di tutti i thrilleristi doc, è un gran peccato, perché è opinione comune che questo romanzo abbia dato avvio al fortunato filone dei serial killer, e a questo misterioso autore si sono detti debitori autori del calibro di Stephen King, James Ellroy and John Connolly.

    Secondo, proprio perché il suo autore, il cui nome è ovviamente uno pseudonimo, è avvolto nel mistero. Ha scritto sei romanzi tra il 1966 e il 1981, per poi sparire nel nulla. Anche se sembra (perlomeno dalle informazioni che ho trovato in rete) che sia deceduto solo quattro anni fa.

    Terzo, perché tutti coloro che lo hanno letto e recensito in rete finora ne dicono cose non buone, ottime.


    Dunque, è da leggere ;) E' sul mio comodino da un paio di settimane. Giusto il tempo di trovare il coraggio di affrontare le sue 800 pagine, poi torno con un commento :)

    Edited by bigfe78 - 7/8/2011, 12:24
     
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  2. PollyM
     
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    Wow, 800 pagine, è stata una bella impresa! Continuo a pensare che sia un libro troppo lungo, e non mi ha entusiasmato, ma l'ho trovato senz'altro una lettura interessante. Ecco la mia recensione - lunga, ma abbiate pazienza, erano 800 pagine e c'è tanto da dire ;)


    "Una specie di grande catena dell’esistenza"

    Così, nelle parole dell’autore, potrebbe essere descritto questo romanzo.

    CITAZIONE
    Eppure nella natura di Kenton, nonostante il suo cinismo da reporter, c’era una forte componente mistica e lui credeva, almeno visceralmente, in un universo in cui la gran parte di ciò che avveniva, su scala umana, era connesso. Una specie di grande catena dell’esistenza.

    Anche la sua struttura narrativa è "una specie di grande catena dell’esistenza". Le quattro stelline sono per questo sforzo immenso, perlopiù riuscito (ci sono autori che ci hanno provato e il risultato è stato solo "il pasticcio confuso" della vita - sono di nuovo parole dell’autore - mentre Stevens in effetti mantiene sempre il controllo della sua rete, della ragnatela che tesse).
    Per il resto, il romanzo, per vari motivi, è abbastanza lontano dal mio gusto personale - e in questo senso non sarei andata oltre le tre stelline e mezzo.
    E’ narrato nello stile della cronaca, con un autore che mantiene una distanza spaziale e temporale (salta di luogo in luogo e, soprattutto nella prima metà del romanzo, fino a quando Bishop arriva a New York, salta avanti e indietro nel tempo) ma soprattutto una distanza emotiva dagli eventi. Usando frasi come "nello stesso momento, a mille chilometri di distanza, un altro uomo leggeva lo stesso articolo", il narratore onnisciente chiarisce che il suo punto di osservazione si trova molto "sopra", o molto "dopo", i fatti narrati, richiamandomi alla mente la voce narrante di quei film che vogliono essere il ritratto di un’intera epoca, tessendo labili, a volte invisibili, spesso assolutamente casuali contatti tra molti personaggi che contribuiscono tutti a formare una gigantesca tela. Al centro della quale questa volta troviamo il ragno, un maniaco omicida verso il quale il lettore non può provare un vero odio perché lo ha visto nascere, lo ha visto piccola vittima di un padre indifferente ma soprattutto di una madre crudele, violenta, lei per prima "non sana" di mente. Thomas Bishop era già condannato a cinque anni, come riconobbero i primi dottori che lo ebbero in cura; non ha mai avuto scelta, è il prodotto di ciò che gli è stato fatto.
    Intorno a lui, la questione della pena di morte e l’uso che di essa fanno giornalisti e politici ha un taglio più giornalistico, appunto, che di thriller in senso stretto. Non ci avviciniamo mai abbastanza né alle vittime, né al killer per sentire paura, angoscia, sgomento. Non soffriamo per e con loro, quasi non vediamo neanche il sangue. E di questo l’autore sembra rendersene perfettamente conto - che sia anzi proprio questo, il motivo alla base della sua distanza? Non c’è coinvolgimento emotivo nella storia, io per lo meno non l’ho trovato, e persino l’aspetto psicologico - la follia del pluriomicida, di quel seriale che avrebbe poi creato "tendenza", in letteratura - è sempre visto come se leggessimo uno dei rapporti più volte menzionati, come se a parlare fossero sempre e comunque gli psichiatri e gli studiosi più volte interpellati dagli investigatori. Non è mai l’autore, e il lettore con lui, che scruta direttamente nella mente dell’assassino, o di coloro che vogliono catturarlo, in realtà rassegnati da subito a seguirne semplicemente la scia di sangue, senza mai conquistare un ruolo proattivo. La figura del segugio manca per gran parte del romanzo - fino a quando Adam Kenton non avanza sotto i riflettori. Ma anche qui, questo grande giornalista investigativo dedica solo parte delle sue energie a Bishop, preoccupandosi, soprattutto all’inizio, di tutelarsi con indagini "politiche" su chi gli sta attorno. Del resto, i politici e i giornalisti, non i poliziotti, sembrano essere i veri interlocutori del folle Bishop, in questa storia. La caccia all’uomo è una parte di quel "gioco di potere" tra "giocatori" (i politici) e "osservatori" (i giornalisti) a cui Stevens dedica molte delle sue pagine.
    Un altro elemento che ha creato distanza, in me, è la forte misoginia dell’intero soggetto. Non solo i protagonisti che contano, quelli che fanno girare la storia, sono tutti uomini. Ma le donne sono o megere malvagie e crudeli, prive di qualsiasi umanità – come Sara Bishop, la prima, vera artefice della follia – o figure meschine che usano gli uomini (come l’amante del senatore o la prima donna con la quale Bishop viene in contatto) o ancora figure prive di personalità e iniziativa, come la moglie del senatore, o la segretaria con la quale Kenton ha una superficiale relazione.
    CITAZIONE
    Le donne, in genere prive di potere, non rientravano nella sua considerazione. Non avevano altro da offrirgli se non la loro compagnia quando era necessaria. Per lui erano creature fondamentalmente innocue e di poco peso nello schema delle cose.

    Lo dice Adam Kenton, ma potrebbero essere tranquillamente parole dell’autore, perlomeno da quanto traspare da questo immenso romanzo.

    Ciò che non si può non ammirare, ciò che risulta assolutamente geniale, è il controllo sui dati. Per almeno tutta la prima metà (e parliamo di 400 pagine, quindi un romanzo intero), il racconto non procede come una retta temporale, non procede neanche per flashback e flashforward. L’unica figura grafica a mio avviso in grado di descriverlo è quella della spirale, che tocca più volte gli stessi avvenimenti, tanto che troviamo figure che sappiamo già morte e le seguiamo passo passo verso la loro morte, e a ogni passaggio vengono fuori nuovi dettagli, nuovi particolari, come nuove impronte che si sommano a quelle precedentemente lasciate, approfondendole. Giriamo in tondo più volte attorno allo stesso evento, e a ogni passaggio la traccia si approfondisce. Anche gli inseguitori seguono la spirale tracciata, raccogliendo gli indizi intelligentemente lasciati da omicida e autore insieme. L’autore non perde mai il controllo dell’enciclopedica mole di materiale che mette sul tavolo. In questo senso, come ha detto James Ellroy, questo romanzo è davvero immenso.

    Sono d’accordo con quanto già detto da molti: il titolo italiano, Io ti troverò, non ha molto senso. Non solo perché molto distante, nel significato e nel tipo di realtà evocata, dall’originale By reason of insanity, ma anche perché quella prima e quella seconda persona suggeriscono un rapporto uno-a-uno che nel romanzo è totalmente assente, o comunque presente solo in parte nelle ultime 200 pagine. Thomas Bishop, l’unica figura a cui si può attribuire il ruolo di "protagonista", ha un rapporto di "uno-a-tutti" con le sue vittime. "Gli altri" sono un universo di investigatori, poliziotti, psichiatri, giornalisti e politici, in cui solo ben oltre la metà del libro uno si erge sugli altri. Ma anche lui, Adam Kenton, il giornalista investigatore, è come ho detto un prodotto del sistema e totalmente immerso in esso. Bishop è per lui una storia, "la" storia, non l’uomo da catturare o l’omicida da fermare. Con lui sente, anzi, anche una certa affinità, e per lui sente sicuramente pietà. Nell’universo cinico dipinto da Stevens, nessuno - con l’eccezione forse di Dimitri, il capo della squadra speciale messa insieme a New York - sembra voler fermare Bishop per salvare donne innocenti. Tutti vogliono fermarlo perché è loro interesse farlo – e non necessariamente subito.

    In conclusione, non sono sicura che definirei Io ti troverò un thriller. La suspense è quasi del tutto – e volutamente, sembra – assente. Il principale colpo di scena è distrutto dalla scelta dell’autore di presentare il punto di vista dell’assassino durante uno snodo cruciale della storia. Un noir solo nel cinismo dominante ma non nella lontananza dai vari soggetti (non che io sia un’esperta del genere, ma questa è la mia sensazione). Rimane un gigantesco affresco, una caccia all’uomo di dimensioni continentali che si tinge di toni giornalistici e politici, più che investigativi. Con un finale affrettato che lascia la sensazione di aver assistito a un film lunghissimo in cui, al posto di vedere il finale, mai girato, ci viene consegnata in mano la bozza senza dialoghi dell’ultima scena.
     
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1 replies since 18/4/2011, 09:46   38 views
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